Lavoro, emigrazione e sacrifici a Onore
Onore era un paese di mani callose e valigie di cartone.
Spesso mani di bambini, che conoscevano già il peso del gerlo pieno di strame sulle spalle, la ruvidezza del manico della zappa e il caldo fiato delle mucche nella stalla d’inverno.
O valigie di adulti, che partivano leggere e tornavano pesanti, cariche di esperienza, di sacrifici e di molti risparmi, per ambire a una vita migliore.
Perché il lavoro, a Onore, a quei tempi non era una scelta: era un destino che si ereditava insieme al cognome, alla terra e alle bestie.
Piccoli contadini, grandi fatiche
Adelia descrive una casa che era anche un’azienda agricola in miniatura: “Avevamo le mucche e le api. Avevamo maiali, galline, conigli e una bella pianta d’uva”, ricorda, mentre spiega l’importanza di possedere anche una stalla, un fienile o la tettoia della legna.
“Da bambini eravamo piccoli agricoltori. Avevamo quattro bestie e aiutavamo i genitori” dice, invece, Antonio che ricorda anche come, a quell’età, faceva la vita da pastore e dormiva spesso sul muro del cimitero, sopra i fiori delle vedove, anche con 5 gradi sottozero.
La loro sensazione, però, a posteriori, non è quella della miseria assoluta: «Non ci è mai mancato niente», dicono, perché il necessario non mancava, a patto di lavorare sempre.
Ma c’è anche chi aveva capito qualcosa in più, come Anselmina, più smaliziata della sorella Adelia: “Mi son detta: non sposerò mai un contadino, perché ti fanno lavorare.”
Il perno della comunità: madri, casalinghe e lavoratrici
E se imbracciare zappa, falce e rastrello era comune anche per le donne, più spesso queste restavano a casa, per mandarla avanti mentre gli uomini uscivano presto per i campi o partivano oltreconfine con destinazione la Svizzera.
Altre ancora, come Vittorina, imparavano un mestiere, cercando la propria strada.
Ed è lei che racconta di come ha fatto avanti e indietro a piedi per anni, con il panino per il mezzogiorno e il rientro nel tardo pomeriggio: “Mi hanno detto: o vai a fare la ‘serva’ in casa d’altri o impari qualcosa. Io, in quei 5 anni, ho imparato il lavoro da sarta e poi ho sempre lavorato in casa mia. Mai per gli altri”.
Lucia, invece, è partita a quattordici anni per Ponte Nossa, trovando lavoro nella filatura: “Stavo in convitto dalle suore. Imparavo a cucire, ricamare e lavorare a maglia. Mi piaceva lavorare. Si facevano turni dalle 6 alle 14 o dalle 14 alle 22. E chi era libero la mattina, faceva lavori in convitto, in chiesa, in refettorio”.
C’era poi anche chi iniziava da giovanissima ad avere responsabilità da adulto, come Adelia che, a soli 8 anni, faceva da mamma alla sorella minore Giacomina, mentre la madre, quella vera, era alla cascina con le mucche, e il padre in Svizzera.
Le donne di Onore erano il perno della comunità: lavoravano in casa, nei campi, nelle fabbriche e, nel frattempo, crescevano figli e tenevano in ordine conti e relazioni.
Quando la Svizzera chiama, Onore risponde: Antonio il bergamasco
Tutti lavoravano a Onore: donne e uomini, adulti e bambini, ma quando la terra e i piccoli lavori in paese
e dintorni non bastavano più a sfamare tavolate da 8, 9 o 10 persone, l’unica vera via era salire sul primo treno diretto verso la Svizzera, in cerca di lavoro.
Generazioni di uomini e di donne sono partite verso i cantoni tedeschi, francesi e il Ticino, cercando lavoro oltre il confine.
È Antonio a raccontare di una domenica nel Canton Aargau, in cui, alla stazione, si sono ritrovati in 54 paesani di Onore. Il suo commento è significativo:
“Qui, in paese, non si poteva neanche giocare a carte perché non si trovavano quattro persone. Erano tutte in Svizzera”.
Prima della partenza, poi, bisognava passare le visite a Chiasso, dove venivano accettati solo i lavoratori giudicati idonei.
E capitava spesso, una volta in Svizzera, di trovare cartelli che dicevano “non si accettano stranieri”, ma quando capivano che erano bergamaschi, la diffidenza lasciava spazio alla stima per la loro capacità di lavorare e li prendevano subito.
Ottenuto il lavoro, poi, si cominciava nei pascoli o con le mansioni più umili, per poi passare al servizio negli hotel o nei cantieri dell’edilizia.
Si lavorava duro, spesso tutto l’anno, Natale compreso, con un unico vero obiettivo: “mettere via” qualcosa per quella famiglia che avevano lasciato a Onore e da cui volevano tornare.
E proprio il rientro, a volte, era quasi una piccola impresa a sé stante.
“Per tornare a casa” spiega Antonio, “si prendeva il treno fino a Clusone e, da lì, valigia in spalla si veniva a piedi fino a Onore per risparmiare il costo del taxi. L’ultimo treno arrivava quasi alle undici di sera e si arrivava a casa a piedi dopo la mezzanotte”.
Non solo Svizzera: la Nigeria di Anselmina
E se i cantoni Svizzeri erano sicuramente la meta privilegiata oltreconfine, c’è anche da dire che non tutti si sono fermati alla vicina Svizzera.
Per qualcuno, come Anselmina, la vita da emigrante ha portato decisamente più lontano.
Lei è passata dalle fabbriche di scarpe svizzere fino all’Africa.
“Ho fatto 35 anni in Nigeria.” racconta la donna, che aveva seguito il marito, assistente edile, nella gestione dei cantieri di scuole e moschee.
“Ho avuto 5 figli, 3 sono nati lì e 2 in Italia. I primi tempi ho fatto avanti e indietro, poi è scoppiata la guerra con il Biafra e la difficoltà, più che a uscire dalla Nigeria, era quella di rientrarvi. Così sono stata lì con i bambini e non sono più venuta a casa”.
Era poi tornata a casa, Anselmina, ma magrissima, segno di anni di sacrifici non solo economici, ma anche fisici e affettivi.
Una stagione di emigrazione, la sua, che si è chiusa solo negli anni Novanta, quando hanno aperto le fabbriche in Val Gandino e lei, con le sorelle, è andata a lavorarci.
Il conto finale dei sacrifici: la pensione secondo Adelia e Vittorina
Oggi Vittorina lo dice senza giri di parole: “Io campo con la pensione svizzera di mio marito. L’Italia non mi dà un centesimo”.
Adelia, invece, ricorda che, una volta, si andava in pensione con 35 anni di lavoro, ma “Prima del ‘70, se eri malata, i contributi non li conteggiavano, e dovevi recuperarli. Solo dopo hanno iniziato a conteggiarli anche se eri malata”.
Già, perché alla fine di una vita di lavoro, lontani da casa e dai propri cari, i sacrifici fatti all’estero si sono trasformati, per qualcuno, in una pensione che ancora oggi garantisce un minimo di serenità.
Per loro, quindi, la pensione non è tanto una questione tecnica, ma il “saldo finale” di una vita di emigrazione e di fatiche: una misura concreta di quanto lo Stato, italiano o straniero, abbia realmente riconosciuto a quella generazione e quegli sforzi.
Dopo i sacrifici “Onore non era più Onore”
Ma, a differenza della pensione dovuta, tra le quattro mura di casa i soldi guadagnati all’estero non erano invece da considerarsi “propri”, ma della famiglia.
Servivano a sistemare la casa, a comprare un pezzo di terra, a mandare un fratello a scuola, ad aprire o portare avanti una piccola attività.
E i sacrifici non erano solo economici: erano fatti di lunghe assenze di padri che tornavano solo il venerdì sera, di madri che dovevano essere severe e affettuose allo stesso tempo, di figli che imparavano a conoscere il padre quasi più attraverso i racconti che attraverso la sua presenza.
E Vittorina, che conosce bene quei sacrifici, ha imparato ad apprezzarne anche i risultati:
“Onore ha avuto un grande sviluppo, dopo che tanti sono andati a lavorare all’estero. Onore non era più Onore. È cambiata totalmente e sono arrivate le possibilità”.
Quei sacrifici hanno, dunque, portato nuove possibilità e alla trasformazione di una comunità: le case sono state rimesse a nuovo, le stalle trasformate, qualche negozio in più è stato aperto e il paese ha iniziato a cambiare definitivamente volto.
Da paese di partenza a paese di accoglienza
Oggi, a Onore, le valigie non partono quasi più. Piuttosto, ne arrivano di nuove.
Le strade percorse dai giovani diretti in Svizzera o verso l’Africa sono diventate strade di arrivo per chi giunge da lontano in cerca della stessa dignità e delle stesse opportunità degli onoresi di un tempo.
C’è anche, nella memoria storica del paese, chi ricorda ancora il primo immigrato extracomunitario arrivato a Onore. Era il 1988. Lui era Khalid, un tunisino arrivato in Valseriana per lavorare in un campeggio appena avviato. Portava con sé un accento diverso e una storia lontana.
Due anni dopo fu il turno di Martina, dominicana, arrivata con altre connazionali per lavorare in un night club.
Lei, in seguito, si era sposata con un uomo di Onore ed era diventata a tutti gli effetti parte di quella stessa comunità che all’inizio la osservava, forse, con curiosità e un po’ di timore.
Negli anni Novanta, poi, il fenomeno è cresciuto: sono arrivati lavoratori dal Nord Africa, dall’Est Europa e ancora da più lontano, portando lingue, abitudini e tradizioni nuove che si sono lentamente intrecciate con quelle del paese.
Pur in minoranza, gli immigrati di prima e seconda generazione, oggi, non sono più “ospiti”, ma parte integrante della comunità: lavorano nelle aziende, nei servizi, nell’agricoltura, e i loro figli parlano bergamasco, frequentano le scuole e giocano a pallone in oratorio.
E così, Onore scopre che la sua storia continua: nata ieri, da mani callose strette intorno alla maniglia usurata di una valigia, cresciuta oggi con i volti dei nuovi vicini di casa, dei nuovi compagni di scuola, dei nuovi colleghi d’ufficio, venuti da lontano.
Tutti parte dello stesso piccolo, grande paese che guarda al domani.
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