Onore tra fede, religione e matrimoni
A Onore, per molti anni, la giornata iniziava prima in chiesa che in piazza o nelle strade.
La messa dell’alba, il catechismo in sacrestia, le processioni che attraversavano il paese erano il filo invisibile che teneva insieme famiglie, contrade e generazioni diverse.
La religione, a quel tempo, non era un fatto privato, ma era il ritmo stesso della comunità.
E, nel bene e nel male, erano il parroco e le suore a dettare quel ritmo, tra messe, castighi e feste che riempivano la chiesa fino all’ultimo banco.
Il parroco, le suore e il catechismo
Adelia lo dice con semplicità: “Il parroco e le suore erano quelli che comandavano. Noi andavamo a messa la mattina alle 6 e mezza, poi catechismo, poi colazione e scuola”.
Era una sequenza fissa, cadenzata quasi quanto un orario ferroviario. E il parroco era il capostazione, che aveva occhi dappertutto. E con lui, la voce delle suore, che arrivava anche fuori dal cortile dell’oratorio.
Tutti seguivano queste regole, eppure qualche eccezione c’era:
“Io, da piccola, la messa la saltavo per dormire”, confessa Anselmina. “Quando Adelia tornava, facevo finta di entrare in casa con lei”.
E proprio Adelia, che la chiesa la frequentava, ricorda che “In sacrestia faceva freddo, perché non c’era riscaldamento e se non sapevamo il catechismo, il parroco ci metteva in castigo”.
Già, perché in quegli anni la religione passava anche attraverso il castigo e la paura del peccato.
Sempre Adelia ricorda che “Una volta era tutto peccato”, tanto che il parroco arrivò perfino a far bruciare sul sagrato di chiesa i tanti libri che suo padre teneva in casa, perché considerati “pericolosi”.
Le feste che fermavano il paese
Ma se le mattine di tutti i giorni erano fatte di messe e catechismo, durante le feste religiose collettive era il paese intero a stringersi attorno alla chiesa.
Antonio conferma che, in quegli anni, “la chiesa era sempre piena”, soprattutto nelle grandi solennità.
Adelia e Anselmina ricordano bene la festa del Corpus Domini: “Facevamo processione. Tiravamo dei cordoni in paese per metter fuori tutte le lenzuola più belle”.
E così, le vie si riempivano del bianco dei teli ricamati, appesi da una casa all’altra, quasi a formare un cielo nuovo sopra le teste dei fedeli, e in piazzetta si preparava un altare, dove il parroco si fermava per la funzione e la benedizione.
Oltre al Corpus Domini, poi, si celebravano Sant’Antonio, San Rocco, la festa dell’Addolorata in ottobre, l’Assunta.
Per Vittorina, la religione era soprattutto “andare in chiesa, far la processione”, un gesto quasi scontato, come respirare. Poi spiega come oratorio, messe e feste fossero l’unico vero centro di aggregazione per i giovani.
Una fede che passava anche dai piccoli gesti
Lo spirito cristiano, però, non si vedeva solo nelle grandi processioni o nelle chiese piene alle feste, ma anche nei piccoli gesti quotidiani, spesso nascosti.
Adelia ricorda un episodio, legato proprio a un gesto di solidarietà: “Una volta mia mamma si è accorta che mio fratello aveva qualcosa nei pantaloni lunghi legati in fondo. Mio fratello prendeva su un po’ di patate, quelle piccole che facevamo cuocere per i maiali, e le portava a ‘sto bambino, Adriano, che andava a scuola senza aver mangiato niente.”
Quel giorno, il fratello non è stato sgridato per il furto delle patate, anzi, la madre gli disse: “Portagli su anche un pezzettino di formaggella e un po’ di polenta”.
In quel gesto semplice, nel dividere con chi non aveva nulla il cibo destinato perfino agli animali, c’è tutta l’idea di una fede che non restava solo tra i banchi della chiesa, ma insegnava valori già in giovane età.
Una fede che entrava nelle cucine, nei cortili, persino nelle cartelle di scuola, trasformandosi in pane condiviso e in una forma concreta di carità, che travalicava il potere delle suore o del parroco.
Il ruolo del curato e della comunità
E proprio accanto al parroco, c’era un’altra figura fondamentale nella comunità: il curato, arrivato in paese povero e senza niente.
Un uomo di chiesa umile, spesso più vicino alla gente semplice e ai loro bisogni materiali, di quanto lo fossero le suore o il parroco stesso.
Lo stretto legame tra questa figura e la comunità contadina viene testimoniato da Adelia che ride, ripensando a un particolare episodio legato proprio al curato: “Quando avevamo qua il curato, voleva il cotechino anche il curato”.
“Il curato non aveva niente. Chi gli ha portato un po’ di farina…mio nonno gli ha portato un secchiello di latte”, continua Adelia, spiegando come la gente di Onore dividesse con lui ciò che aveva: formaggi, farina, un po’ di carne, qualche uovo.
C’erano, poi, anche terreni, lasciati non alla parrocchia, bensì proprio al parroco, per il suo sostentamento personale. Da questi terreni, lui prendeva l’affitto e, a sua volta, dava qualcosa anche al curato, secondo un sistema antico, che teneva in piedi non solo la chiesa, ma anche chi la serviva ogni giorno.
La relazione con il clero, però, non era sempre così facile o “romantica”, perché in molte altre occasioni c’era rispetto, c’era timore e c’era anche conflitto.
Eppure, nella memoria degli anziani, resta forte l’idea di una chiesa che, con tutti i suoi limiti, era al centro della vita spirituale, educativa e collettiva del paese.
Matrimoni: fiori, neve e doti preparate a mano
Ma se le feste religiose segnavano il calendario condiviso del paese, i matrimoni segnavano le occasioni personali.
A Onore, sposarsi non era solo una scelta d’amore, ma un rito carico di simboli, regole e preparativi che coinvolgevano tutta la famiglia.
“Avevo già 26 anni.” ricorda Vittorina, “Avevo già il ragazzo da 6 anni e avevo preparato la mia dote e mi ero preparata per trasferirmi da Onore a Rovetta”.
Poi ricorda anche il suo vestito di nozze: “Il vestito del matrimonio non era lungo, allora si usava a mezza gamba. Me lo sono fatto da sola, era un grigio chiaro, chiarissimo. Scarpette col tacco, senza scialle, nonostante il freddo di gennaio. Con la neve”.
E aggiunge ancora preziosi dettagli sulla festa successiva: “Il pranzo di nozze fu alla Costa d’Oro di Rovetta”, il locale più gettonato del momento, con un centinaio di invitati e solo qualche incontro preliminare con il parroco per la preparazione: “Si andava dal parroco, Don Pesenti, un paio di volte, massimo”.
Anselmina, invece, ricorda un altro dettaglio del proprio matrimonio: “Le suore mi han detto di prendere dei fiori. Abbiamo comprato tanti garofani bianchi, che usavano così”.
Fiori che facevano parte di una ritualità che prevedeva che i vasi di fiori venissero sistemati accanto all’altare, mentre “Quelli della sposa li ho messi sull’altare”.
“Si andava in chiesa a piedi.” rivela ancora Anselmina, descrivendo un passaggio di consegne che dice molto del ruolo paterno di allora. “Ti accompagnava il fratello, poi, fuori dalla chiesa ti prendeva il papà e ti portava all’altare”.
E infine, Lucia racconta di un matrimonio più intimo, con una trentina di persone: “Mi sono sposata a gennaio perché quando erano via a lavorare, gli uomini tornavano in quel periodo lì. Avevo un vestitino azzurro. Ho preso la roba e me l’ha fatto la sarta”.
Poi aggiunge, anche lei, alcuni dettagli sulla festa: “Siamo andati a casa di mia zia. Aveva una bella cucina e lì si è fatto il pranzo. Era brava a cucinare tante cose, le ha preparate la sera prima: c’era prima un po’ di antipasto, poi sempre i casoncelli, i brassadei, un po’ di frutta, caffè d’orzo e caffè mischiati nel pentolino. E dopo il caffè c’era il formaggio e la sera, poi, sono venuti da noi e c’era la minestra.”
Antonio, invece, aggiunge un dettaglio legato al suo matrimonio che racconta anche la situazione amministrativa del paese: “Mi sono sposato nel ’59 e il Comune era ancora a Castione. Per le carte del matrimonio, quindi, sono andato a Castione”.
Una testimonianza preziosa, questa, di come Onore, allora, fosse ancora sotto la giurisdizione del Comune di Castione della Presolana.
E fu proprio in quello stesso anno, nel 1959, che il Comune si spostò ufficialmente a Onore, segnando anche sul piano amministrativo un passaggio importante per la comunità.
Eppure, che si parli di feste, di amministrazione cittadina o di questioni personali, ciò che emerge da tutti i racconti è che la chiesa è sempre stata lì, come una testimone non sempre discreta, ma indispensabile.
La fede tra paura e consolazione
Se da un lato, quindi, la religione era rigidità e “tutta peccato” e castighi, dall’altro era anche socialità, allegria nei giorni di festa e consolazione nei momenti più bui.
Nelle grandi paure, malattie come la Spagnola o l’Asiatica, durante la guerra, o nelle notti dei bombardamenti lontani ma sentiti, la chiesa diventava luogo di rifugio interiore.
Le processioni, le messe, i rosari non erano più solo riti, in quei momenti, ma un modo per sentirsi uniti nell’affrontare qualcosa che nessuno poteva controllare.
La religione, a Onore, era un miscuglio di timore, obbedienza, abitudine e bisogno di speranza.
E nelle parole degli anziani di oggi, emergono, insieme il ricordo dei ceffoni in sacrestia, anche quello delle feste luminose del Corpus Domini, delle lenzuola bianche appese in paese, dei matrimoni con i garofani bianchi sull’altare.
Ed è in questo intreccio, tra fede vissuta, regole rigide e tradizioni che riempivano le strade, che, per decenni, si è formata e sopravvive ancora oggi l’anima religiosa di Onore.
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